ROMA (19 maggio 2025)—È stata recentemente pubblicata, sulla rivista Sicurezza e Giustizia, la seconda e ultima parte dell’analisi dei combattimenti tra cani effettuata da Carolina Salomoni e Angela Maria Panzini, beneficiarie di una delle quattro borse di studio assegnate da Fondazione Cave Canem e Humane World for Animals, precedentemente nota come Humane Society International, nell’ambito del progetto “Io non combatto”.
Il lavoro è stato coadiuvato e coordinato da Federica Faiella, Presidente della Fondazione Cave Canem; Martina Pluda e Alessandro Fazzi, rispettivamente Direttrice di Humane World for Animals Italia e Consulente per i Rapporti Istituzionali dell’organizzazione.
Mentre la prima parte dell’analisi, pubblicata a gennaio, era incentrata sulle origini e sulla distribuzione geografica del fenomeno dei combattimenti tra cani, la seconda parte indaga l’impatto dello stesso sulla società e sulle persone, specialmente quelle più giovani, approfondendo i diversi profili psicologici dei dogfighter, le loro percezioni distorte della mascolinità, il loro coinvolgimento in altre attività criminali e i percorsi di rieducazione che è possibile avviare.
Le tematiche affrontate sono particolarmente rilevanti per i lettori di Sicurezza e Giustizia: la rivista, fondata 15 anni fa dall’Ing. Giovanni Nazzaro, si rivolge principalmente a istituzioni, Forze di polizia e procure, che hanno un ruolo fondamentale nella prevenzione e nella repressione dei reati contro gli animali.
“L’obiettivo di Sicurezza e Giustizia è offrire un’editoria nuova, con tematiche affrontate in modo sintetico ma scientificamente accurato, formando il lettore e promuovendo una lettura consapevole. Attualmente, la rivista focalizza la sua attenzione sulle nuove tecnologie e sull’intelligenza artificiale, ma anche sull’ambiente nel suo complesso, sulla base dell’approccio ‘one health’. Ecco perché ho voluto dare visibilità a una tematica spesso sottovalutata sia dal punto di vista della tutela degli animali, sia da quello socio-criminale, allo scopo di aumentare la comprensione e la prevenzione del fenomeno. Le zoomafie, oggi, sono una realtà presente su tutto il territorio italiano, rendendo necessaria un’attività di contrasto sempre più accurata e mirata da parte delle Forze di polizia, grazie a una conoscenza approfondita del profilo psicologico-comportamentale delle persone responsabili dei maltrattamenti”, dichiara il Col. Michele Lippiello, direttore editoriale della testata.
“Il profilo psicologico-comportamentale del dogfighter: analisi comparata dallo streetfighter al professionista e approccio rieducativo come strategia per la tutela della società”: questo il titolo dell’articolo, che mette in luce le caratteristiche delle diverse tipologie di dogfighter, dagli streetfighter agli hobbisti, fino ai professionisti.
Allo stato attuale dell’arte, la presenza di streetfighter e hobbisti non è stata rilevata in Italia, dove, invece, il monopolio dei combattimenti tra cani risulta in mano ai professionisti. Queste figure, spesso legate alla criminalità organizzata, dispongono di risorse economiche significative, collaborano con addestratori e comunicano tra di loro tramite social media e dark web, strumenti che hanno portato anche a un aumento degli scommettitori.
La maggioranza di queste persone, come evidenziano gli autori dell’articolo, non associa i combattimenti tra cani a una forma di maltrattamento degli animali, perché crede che gli esemplari impiegati siano stati appositamente selezionati e allevati a tale scopo, e rispondano quindi a un istinto “naturale”. Inoltre, gli esemplari vincenti sono considerati mezzi per ottenere credibilità, nonché veri e propri simboli di mascolinità.
I casi di maltrattamento degli animali affondano spesso le proprie radici in situazioni di disagio, che non di rado coinvolgono la sfera familiare e socioculturale in cui il responsabile è cresciuto e vive. Questo è uno dei primi elementi da considerare quando si cerca di rispondere alle seguenti domande: come si può garantire che le persone condannate per reati a danno agli animali e, nello specifico, per partecipazione nei combattimenti tra animali, una volta tornate in libertà, non compiano ulteriori atti lesivi del benessere degli animali che incontreranno durante la loro vita, e che simili atti non arrivino a ledere anche altri esseri umani? È possibile avviare percorsi di rieducazione che mirino a costruire una relazione fondata sull’empatia e sul rispetto, anziché sulla violenza, fra il colpevole e la vittima?
“Dal momento che non è stato possibile, almeno per ora, avviare uno studio sperimentale su come reinserire il dogfighter nella società, abbiamo ritenuto opportuno avanzare delle ipotesi di rieducazione fondate sulla consapevolezza che un approccio esclusivamente punitivo, per quanto necessario, non sia sufficiente a tutelare la società sul lungo periodo”, commentano Carolina Salomoni e Angela Maria Panzini, autrici dell’articolo. “Invece, la possibilità di organizzare programmi rieducativi all’interno di contesti controllati, quali gli istituti penitenziari, consentirebbe alle persone responsabili di maltrattamenti a danno degli animali non umani di interagire con gli stessi in modo costruttivo e sicuro, proprio con l’obiettivo di costruire relazioni basate sull’empatia e sul rispetto. Parliamo indubbiamente di progetti complessi, sia da pensare sia da mettere in pratica, ma siamo convinte che la stretta collaborazione tra tutte le parti coinvolte a vario titolo possa essere determinante nella rieducazione di queste persone, senza però mai prescindere dall’assoluto rispetto e tutela del benessere psico-fisico degli animali coinvolti”.
I risultati dello studio saranno presentati il 26 giugno presso il Senato della Repubblica, a Roma. L’obiettivo delle attività di ricerca promosse nell’ambito del progetto “Io non combatto” è proprio quello di favorire una maggiore comprensione della pratica del combattimento tra animali e l’identificazione di soluzioni concrete che possano arrestarne la diffusione all’interno della società, incentivando comportamenti più compassionevoli e politiche più etiche.
“I combattimenti tra cani rappresentano una crudele violazione dei diritti animali e un fenomeno criminale trasversale, spesso collegato alla delinquenza organizzata e alla distorsione dei valori sociali”, dichiarano Alessandro Fazzi, Consulente per i Rapporti Istituzionali di Humane World for Animals Italia, e Federica Faiella, Presidente della Fondazione Cave Canem, co-autori dell’articolo.
“Abbiamo dato vita a questo studio perché crediamo fermamente che il fenomeno dei combattimenti tra cani debba essere affrontato con strumenti repressivi, ma anche attraverso un cambiamento culturale profondo. I dati emersi confermano quanto sia urgente intervenire su più livelli: normativo, educativo e sociale. È fondamentale riconoscere il legame tra violenza sugli animali e disagio umano, e sviluppare percorsi di rieducazione che possano realmente incidere sulle vite dei responsabili, prevenendo nuove forme di violenza. La rieducazione dei dogfighter è una misura a favore degli animali e uno strumento concreto di tutela della società intera. Offrire percorsi di recupero significa infatti prevenire il rischio che la violenza appresa e agita contro gli animali si trasformi in violenza verso gli esseri umani e altri animali. Per questo motivo, investire in interventi rieducativi rappresenta una scelta strategica in termini di sicurezza, giustizia e prevenzione. Solo promuovendo un approccio integrato potremo sperare in una società in cui nessun essere vivente venga più usato, sfruttato o maltrattato”, concludono Fazzi e Faiella.
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